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Testimonianza critica sulla mostra “Tempo quattro quarti”.
 
Giuseppe Corradino, ha alle spalle una lunga pratica pittorica nel corso della quale è riuscito a elaborare il suo linguaggio personale. È partito da una pittura più rappresentativa ma sempre mentale che gli ha consentito lungo esercizio nel perfezionamento della tecnica. Questa, che avrebbe potuto convincerlo ad adagiarsi comodamente - cristallizzandosi - in formule collaudate e vincenti, è invece il presupposto alle sue nuove scelte. Egli ha individuato un elemento nel quale riconosce quella versatilità necessaria alla sua esigenza di impegno civile, che io ritrovo nel suo modo di affrontare la vita e la pittura. Per questo continua ad indagarlo ottenendo risultati diversi e sempre interessanti. È un elemento che, a mio parere, traduce in maniera immediata e pregnante l’immagine mentale del concetto uomo. E non è arbitrario né frutto di una convenzione. L’impronta digitale non è fictio inventiva, ma rappresenta e rivela ogni uomo nella sua individualità e nello stesso tempo ne dichiara l’appartenenza non solo ai parlanti del comune sistema linguistico, ma alla comunità degli umani. Nel bene e nel male. A questo filo concettualmente ininterrotto, per me affascinante perché contiene significati profondi e anche contrastanti (individualità/comunanza - contenuto/forma ; storia/ memoria - quotidianità/ cronaca) Corradino affida i suoi pensieri di uomo e di artista. La naturale bellezza del segno, la sua fluida eleganza che gli consente soluzioni non solo squisitamente pittoriche, ma che interagiscono con i contenuti scelti, di volta in volta, in base alle problematiche attuali e che egli arricchisce di precisi riferimenti simbolici nella scelta dei colori, degli elementi e delle parole che consentono livelli diversi di lettura. Come dire: l’uomo è nella vita. Anche nei drammi. Ma, se crede, lotta ed offre il suo contributo. Anche con la pittura
Giuseppina Radice

Testimonianza critica sulla mostra “Beyond Appearance”.

Difficile andare oltre le apparenze, quando esse sembrano offrire o lasciare poco a fantasia e curiosità. Ma, appunto, è solo un’apparenza a sviare dal profondo quando una riduzione di spessore sposta i confini fra cui l’occhio è sollecitato a muoversi e spaziare fino a cogliere il senso dell’immagine, possesso offerto in premio a chi non si fermi a essa. Da questa ulteriorità parte Giuseppe Corradino, che vi è approdato dopo anni di lavoro incentrato sulla figurazione, via via decontestualizzata e scorporata, quasi, privata del proprio valore iconico, fino a farne puro segno, denotazione senza referenze a portata di sguardo o sublimate, trasparenti o cifrate allegorie. D’altra parte, l’immagine ricondotta ai suoi dati visivamente più flagranti, di pura astrazione onirico-surreale, senza connotazioni attinte al profondo, era recuperata a conseguenza di una scelta finalizzata ora al ‘sociale’ dei messaggi sottostanti, al seguito o in premessa, ora devoluta a effetti iperrealistici che destrutturavano, appunto, l’apparenza, per plausibile o incongrua che fosse. (...)
Lo vediamo negli oli su tela cui Corradino ha lavorato negli anni di una lunga militanza pittorica dove l’immagine, che per sé non ha una valenza realistica, legittimi l’artista come testimone di un mondo che, ricambiando sentitamente l’attenzione di cui è gratificato, ne garantisca l’autenticità; ma è, in primo luogo, in funzione della visione mitico-onirica, che ne fa qualcosa che esalta o stravolge la resa ‘oggettiva’: un traslato, com’è d’uso, che rinvia a altro o ‘rappresenta’ solo se stesso, quasi se il contesto comune ne fosse una proiezione o si offrisse quale occasione o superficie riflettente (ovvero: tocca alle cose note a ciascuno riconoscersi, rispecchiarsi nel ‘soggetto’ del dipinto: che, viceversa, per proprio conto, non ha bisogno di convalide). Mentre, in altri casi, l’aspetto iconico è un effetto, ma di contorni e colori, prima che di un’intenzione o di una remissione al visibile cui aderire, sia pure con le riserve o correzioni e aggiunte alla bisogna; o ancora, è il correlato di una attenuazione o intensificazione del controllo dei processi psichici o sensibili, che liberano i contenuti da ogni subordinazione o legame immediato con l’esperienza. (...)
In altre parole, le immagini che Corradino ci mostrava non era dato osservarle ‘in natura’. Si tratta di parvenze fosforescenti, che brillano di luce propria, che non esistono al di fuori di una dimensione interna o interiore, anima o anticamera, soffitta o retroscena che sia; uno spazio, cioè, dove si possono osservare o coltivare quietamente ossessioni o spiare enigmi che non si schiuderanno in rivelazioni, sennò, troppo scontate. (...)
Ora, quello spazio non c’è più e l’immagine non trova posto se non oltre l’apparenza, appunto. La decantazione che conduce Giuseppe Corradino a una maggiore essenzialità, insomma, se lo porta a superare l’immagine, non implica che essa vada, perciò, rinnegata. Fosse simbolo o schema in cui si articolava il costrutto spaziale o era distribuito l’ordine degli effetti, l’immagine, nella sua struttura, valeva come mezzo di accesso, una sorta di modulo non ancora assunto nel suo valore seriale o non del tutto risolto in segno attorno a cui ripensare l’opera. Ecco, perciò, che nei lavori successivi sono solo segni quelli che popolano le opere che Corradino realizza da più di due lustri a oggi. Segni che non connotano, ma sono connotati dall’insieme delle relazioni che li legano in una mappa – genomica, da geografica del profondo, della border line fra organico e inorganico, della circolarità di essi in un inestricabile labirinto; o al contrario, di una identità irripetibile, di un’impronta individuale più forte di qualunque smentita o conferma del visibile – dell’apparente. Rapsodiche, avvolgenti o dileguate spirali, le impronte digitali si diramano come una grafia che parla per ciascuno di noi esprimendosi in caratteri e idiomi che confondono i propri tratti alle tracce meno decifrabili, per ricomporle in una fisionomia e meno agevoli da risalire, confluendo in un indistinto flusso segnico, in variazioni sul tema dell’identità, con minime scansioni che danno luogo a grandi scarti da un materiale all’altro come da un soggetto all’altro. Esse fanno da sfondo, da orizzonte a tutte le divagazioni del visibile e da superficie su cui si susseguono gli sconfinamenti oltre di esso. Su quello sfondo radiante, su quella superficie concentrica o divergente, Corradino incide o sovrappone sagome, profili, come asterischi che sembrano riportare quelle linee al deposito lordo di realtà individue o inscrivervi il percorso della ‘specie’, della forma o della cosa non riconosciuta. Altre volte, ritroviamo quelle impronte nascoste affiorare, rapprese, in concrezioni laviche o altre declinazioni materiche che rivendicano per sé un’identità quanto più non percepita come tale.
Forse, sono queste le icone che Wharol avrebbe consacrato in una civiltà dell’immagine che tende, fatalmente, oltre le apparenze, così da volgerle a colorazioni differenti; e perfino le stilizzazioni di un Keith Haring, nella loro elementarità vorticante, pungente, nervosa, rinviavano a un analogo e non domato panorama di intrecci, multipli o seminali, oltre cui nulla può essere immaginato o visto.
Rocco Giudice
Testimonianza critica sulla mostra “Del tempo… ritratto”.
L’anno: il 1896.
Un treno, 50 secondi, un’emozione.
Il titolo: L’arrivo di un treno nella stazione di La Ciotat.
Siamo in Francia. Nasce con la regia di Louis Lumière: il film. Dura per l’appunto 50 secondi, ed è in bianconero. Nasce così nella storia dell’Arte: il mezzo che permette all’uomo l’atto di registrare il tempo.
E il tempo lo registra anche Giuseppe Corradino. E dentro l’opera lo fissa per indagarlo. Per conoscerlo. Per oltre il tempo stesso andare.
Giuseppe Corradino fissa il tempo: nel segno. In quel distintivo tratto digitale che a ognuno di noi appartiene e che ci rende diversi. L’uno dall’altro. Ci identifica. E alla identificazione dell’uomo, segue la volontà di conoscenza che dell’Essere ha l’Artista.
Corradino indaga l’Essere nell’atto stesso dell’Esserci. E ne segue le tracce. Sulla tela riporta ipotesi e realtà che alle emozioni e alla ragionata emotività si legano. E la realtà, in tal modo, l’Artista pone sotto una continua osservazione. Con essa il tempo. Rivolgendo a quest’ultimo l’attenzione di chi vuol sezionarne la vita.
E la vita del tempo è il movimento non visto. La parola non udita. I silenzi riconosciuti: e mai gridati nel loro manifestarsi. Sono questi i testimoni che l’Artista sa ascoltare. Il tutto attraversato da una certa rivisitazione dal gusto d’antan. Una passione per un presente, che già non esiste nel momento in cui è osservato, poiché già passato. Quasi una memoria mediale della realtà, dentro la quale Corradino si muove con disinvoltura. E si muove fra cortocircuiti spazio-temporali, creando e fissando immagini che di storia si nutrono.
Racconta, l’Artista. Racconta di riflessioni. E di tematici percorsi: che al quotidiano vivere appartengono. Che allo stesso quotidiano respiro danno vita. Lasciando tracce. Impronte. Identità nascoste. Taciute e gridate. Palesate e occultate. Corradino racconta: e racconta anche di ognuno di noi. Di ogni nostro pensiero. Di ogni nostro atto di consumo. Facendo sentirci sempre dentro il tempo. Quello stesso tempo che fissa in immagine. E che dentro esso indaga.
E infine, gioca: l’Artista.
Gioca col movimento. Quello apparente. Quello che ci lasciamo dietro nel tempo: il movimento già fatto. Il movimento che è tempo già compiuto. Il gioco dunque è col tempo passato: nell’ingannevole riconoscimento del tempo presente. E in tale ingannevole studio del tempo presente, l’Artista indaga il passato: ossia, la prova già consolidata di una volontà già espressa, e manifesta. La prova di un tempo già compiuto.
Soltanto così può il tempo essere fissato. Essere registrato fra i colori e le linee. Poiché nessuna cromatica realtà lineare può nel tempo presente essere riconosciuta: e ancor meno essere letta. L’atto di riconoscimento e di lettura ha vita soltanto nel tempo di un immediato già compiuto presente: che ha nome passato. E a questo immediato già compiuto presente Giuseppe Corradino si rivolge: poiché soltanto in tal modo può registrare il tempo, può vederlo…come si può vedere un treno che arriva…
Sebastiano Mangiameli
Testimonianza critica sulla mostra “Attraverso in ogni verso”.
 
Guardando le opere degli ultimi anni di Giuseppe Corradino possiamo scorgere una netta virata rispetto ad un passato di matrice figurativa e ritrovarci a leggere una pittura di conflitti e di vertigini in un ambiente che senza ombre risulta essere più riconoscibile e riconducibile al suo autore attraverso l'uso di “impronte digitali” che ne simboleggiano la firma, immerse in atmosfere di struttura informale o fotografica.
Le sue “impronte”, icona dell'Uomo, sul lato simbolico equivalgono alle forchette di Giuseppe Capogrossi, ai sacchi di Alberto Burri, al ferro di Jannis Kounellis, alle cancellazioni di Emilio Isgrò. In esse c'è un comunicativo espresso ad alto contenuto d'intenzionalità.
L'impronta come segno distintivo del suo lavoro assume una forza evocatrice di carattere universale con una serie di significati e associazioni che vanno ben oltre la geografia della pelle. L'impronta anche come un volto, segno che concorre a cancellare un'altra immagine, a manifestare un disaccordo, a negare qualcosa, ad esprimere un'appartenenza. L'impronta ancora come struttura, architettura immaginativa nella quale la pittura che la determina si dichiara senza veli come procedimento lontano dall'istintualità gestuale, per divenire un concentrato misto tra attrazione ed allontanamento, condizioni comuni all'attraversamento, sospeso tra immobilità e movimento. L'impronta infine come labirinto, metafora del mistero della vita, luogo da percorrere e vivere nel quale innestare il dubbio della scelta mediante strade ulteriori o possibili, inno alla libertà, anche se non sempre traghettanti verso approdi desiderati o desiderabili.
In particolare le sue “orme” sono segni unici e indelebili di un'umanità che parla lingue diverse, nutre sentimenti diversi, scandisce la propria vita con tempi diversi, ma che è capace di coniugare tutta questa ricchezza di diversità nel convergente e accomunante segno di una labirintica traccia, fatta da linee che ricercano, che interrogano, che non delimitano ma percorrono e che libere vanno a scoprire l'artista-uomo nelle pieghe delle sue più intime e fragili memorie. Con questa ricca segnica abbandonata agli slanci di dinamiche centrifughe o centripete, che suggeriscono una traiettoria ma non insegnano il cammino, l'autore cerca di imprimere un taglio durevole al corpo ferito del più ampio “quadro” contemporaneo, che spesso nel mare magnum del fare arte ai nostri giorni si identifica sempre più nell'immagine di un'ulcerazione dell'anima.
Il messaggio che giunge al fruitore è l'espressione più evidente e concreta del tempo proprio di Corradino, del suo ambiente circostante e della società che volontariamente o inconsciamente lo condiziona e indirizza nella scelta di temi, tematiche e visioni, pervenendo nel risultato ad una pittura concettuale e simbolica tesa ad esprimere gli archetipi e i simboli modello della cultura a noi più prossima. In questo percorso l'espressione e la comunicabilità del proprio pensiero non vogliono però assumere una ieratica compostezza, caratteristica specifica di un manifesto di denuncia e contestazione, quanto giungere invece, almeno nell'intenzione, a registrare i rapporti intercorrenti tra la realtà naturale e la condizione umana. Le opere dell'artista vivono e fondono assieme due anime complementari rispondenti alla struttura della materia e della forma. La “materia” di uno scenario scelto per tessere in pittura il proprio racconto e la “forma” di un segno digitale per far suonare uno spartito personale. E' come se, rispetto a ciò che vuole raccontare nelle sue tele, ci volesse far percepire sempre la presenza dell'uomo che aleggia come spettatore o protagonista, rendendo costantemente presente la memoria del suo passaggio attraverso il segno distintivo di un'impronta, usata come graffio identitario. In particolare il suo amore per la materia corrisponde al primo contatto con le tele dei suoi quadri, infatti Corradino campisce le superfici comprese nel perimetro dei telai delle sue opere mediante un uso entropicamente controllato del colore giungendo alla definizione di una spazialità quieta. Il suo spazio è sedimentato, stratificato da una materia intrecciata al significante; vissuta, invasa e attraversata dal segno.
 Il colore riveste un'importanza centrale nei suoi quadri e un valore inalienabile nella sua mente secondo la scala de “Il principio della necessità interiore”. In particolare, sentendolo parlare mi ritornano in mente le domande sollevate da Kandinsky nel suo “Lo spirituale nell'arte” come “Sino a quale punto il suono interiore di una forma dev'essere velato o messo a nudo? […] L'unione di velamento e rivelazione offrirà nuove potenzialità e nuovi temi alla composizione”. Tutto questo sapientemente stemperato mediante il sapore dei colori, “alcuni di questi hanno un aspetto ruvido, pungente, mentre altri sembrano lisci e vellutati, che si ha quasi voglia di accarezzarli”.
La sua propensione ad un colore netto, mai vibrato in miscele confondenti, lo porta dritto a rafforzare e ad esprimerci la sua visione grafica e calligrafica delle sue orme: denuncia o piacente testimonianza del suo crudele artefice o sognante pensatore. Il risultato delle sue sperimentazioni arriva ad affermare che non c'è alcuna differenza tra la rugosità delle linee espresse e il fondo, in un contesto dove la pittura, talvolta, diviene rilievo tattile e materico sfociando in pastosità dense, a volte monocrome. Un'elaborazione con una specie di rituale nel quale sembra che Corradino voglia eliminare il quadro dalla sua definizione di finestra su un tutto più grande, rendendolo soggetto autonomo, oggetto relazionalmente autosufficiente. Per centrare questo obiettivo comunicativo la relazione sintattica degli elementi converge ad un equilibrio instabile dei singoli elementi e la sovrapposizione di piani semanticamente diversi diventa possibile ed auspicabile e trova, a volte, un filo rosso che lega, nell'utilizzo di un flusso di parole scritte, forme calligrafiche che evocano l'oriente, improvvise rapsodie, lettere deformate che si piegano e si rincorrono divenendo voce scritta di una memoria, di una cultura, di un fatto, di una denuncia, di un annuncio.
L'impronta di una mano per dimostrare che l'uomo è reale, come reali sono le derive a cui la sua mano attraverso la sua mente è capace di giungere. L'impronta come identikit di una condizione attuale di sonno che vuole ritrovare il proprio sogno.
Antonio Vitale